Quando si parla di no profit ci si riferisce a quello che il governo italiano identifica come Terzo Settore, che per definizione si colloca a metà fra Stato e Mercato. Del Terzo Settore, chiamato anche non-governativo, fanno parte infatti tutte quelle istituzioni che non operano a scopo di lucro, producendo servizi e beni rivolti all’utilità pubblica.
Una realtà economica a sé stante, quindi, e in costante evoluzione che presenta enti tra loro molto diversificati nella loro struttura, distinti per tipologia, status giuridico e da una vasta gamma di obiettivi. Si può parlare in generale però di cinque principali tipi di organizzazioni in Italia che operano senza scopo di lucro a fini solidaristici: le organizzazioni non governative, le associazioni di volontariato, le cooperative sociali, le fondazioni ex bancarie e le associazioni di promozione sociale. Nonostante la distinte aree di interesse, le no profit si accomunano per la totale assenza della distribuzione degli utili generati tra i propri soci e l’impiego totale delle proprie risorse per la realizzazione dello scopo registrato nel proprio statuto.
Certo è che in Italia, il settore del no profit continua a crescere. Dai dati dell’Istat del 2018, si contavano in Italia 343.432 istituzioni no profit già nel 2016 che impiegavano ben 812.706 dipendenti. Cifre considerevoli soprattutto se si guarda il dato in un’ottica di occupazione e impresa nazionale, da cui si deduce che il 7,8% delle imprese italiane è no profit e che tale settore impiega il 6,9% rispetto ai dipendenti impiegati da tutto il settore imprenditoriale italiano. Tra gli occupati nel settore no profit, il 99% opera principalmente in tre aree: l’assistenza sociale (con un 33,1%), la sanità (23,3%) e l’ambito dell’istruzione e della ricerca. Insomma il Terzo Settore rappresenta un mercato occupazionale in evoluzione capace di offrire nuovi ruoli e nuove figure.
Anche il governo ha puntato la propria attenzione sul mondo no profit, emanando un decreto legge nel luglio 2014 e finalmente approvato in via definitiva nel 2016, dove si cercano di redigere delle direttive di regolamentazione, riorganizzazione e semplificazione da un punto di vista normativo e fiscale delle realtà no profit. In particolare il decreto mira a semplificare il procedimento per il riconoscimento della personalità giuridica di tale associazioni, a concedere una maggiore autonomia statutaria e a chiarire le forme e modalità di organizzazione e amministrazione degli enti.
Essere una no profit non significa essere esenti da problemi gestionali e da scadenze fiscali. Anzi, spesso gestire diversi progetti, muovere fondi, rimborsare dipendenti e gestire volontari richiede una grande capacità organizzativa e molto tempo che, invece di essere purtroppo destinato al progetto stesso, viene dedicato alla gestione amministrativa. Per questo anche nel settore no profit, come per le PMI, si inizia a parlare di innovazione digitale, considerandola un’opportunità per aumentare e controllare i flussi finanziari e per creare lo spazio per nuove emergenti competenze anche nelle realtà della sostenibilità sociale.
Sono già disponibili sul mercato soluzioni di semplificazione e digitalizzazione della gestione fiscale destinate esclusivamente al Terzo Settore, come Soldo, una carta per le no profit capace di tenere traccia in tempo reale dei diversi flussi di cassa dell’intera organizzazione e sveltendo la raccolta di dati relativi a fatture fiscali e scontrini. E’ un primo passo verso una riforma tecnologica capace di massimizzare i potenziali di ogni associazione, puntando sullo sviluppo di tre leve strategiche del digitale: la possibilità di gestire meglio gli interventi attraverso un monitoraggio più efficace, lo sviluppo di un management più efficace della comunicazione con gli stakeholder e la creazione di una gestione finanziaria più efficace e veloce, con particolare riguardo al fundraising e alla rendicontazione.